Quando nel suo studio si affaccia una “donna bruna di un pallore mortale”, al dottore mancano cinque mesi alla pensione. Questo vuol dire che dovrà vedere ancora 800 pazienti, sedersi sulla sua poltrona di cuoio alle spalle del lettino e fingere di prendere appunti mentre in realtà riempie il taccuino di caricature di uccelli. Da tempo l’anziano psicanalista ha perso la voglia di fare il proprio lavoro e forse anche quella di vivere. Abita da solo nella casa in cui è nato, in una cittadina della provincia francese, dove tutto è rimasto intatto per decenni, cinque giorni alla settimana siede allo stesso tavolo dello stesso ristorante e ogni sera ascolta dalla parete i rumori della vita del suo vicino che non ha mai visto.

Poi quella giovane donna tedesca che ha conosciuto l’ospedale psichiatrico (siamo negli anni Quaranta) insiste per essere presa in cura, proprio ora, proprio da lui. Agathe prima supera il filtro dell’efficientissima infermiera, madame Surrugue, poi abbatte le resistenze dello stesso dottore. E tutto cambia. Il male di vivere della paziente costringe l’anziano psicanalista a guardare la propria infelicità. E cominciare a vivere la propria vita.

Con questo primo romanzo la danese Anne Catherine Bomann (che è anche poetessa, psicologa e campionessa di pingpong) si addentra nel lato in ombra di ogni relazione umana. E affronta con empatia e delicatezza domande fondamentali. Ricordandoci che i ruoli e il tempo (che crediamo) a disposizione alla fine possono essere solo una convenzione.

L’ora di Agathe, di Anne Catherine Bomann, traduzione di Maria Valeria D’Avino, Iperborea, pagine 156, 2019